SPAGNA
Io ed il mio fidanzato non vedevamo l’ora di partire alla volta dell’Andalusia, una terra della Spagna che da sempre abbiamo sognato di visitare. E finalmente ci siamo, pianifichiamo il viaggio e prenotiamo volo, auto e vari alberghi su internet (per risparmiare un bel pò di soldini). Partiamo ad agosto da Malpensa per iniziare un’avventura, durata 8 giorni, a dir poco spettacolare in una terra che ha del sorprendente.
1° giorno: MALPENSA – SIVIGLIA
Arriviamo puntualissimi a Siviglia e dopo aver ritirato il mio trolley quasi completamente distrutto in volo, ci dirigiamo al banco dell’autonoleggio per ritirare la nostra auto prenotata mesi prima per poi iniziare il nostro viaggio, pianificato interamente da noi stessi. L’itinerario è composto da sette tappe distanti circa 100/150 km. l’una dall’altra. Le strade sono comode, a grande percorrenza. Gli spostamenti sono veloci, lasciando così parecchio tempo disponibili per la visita delle città. Ci dirigiamo al nostro albergo di Siviglia, prenotato, come tutti gli altri hotel del viaggio, via internet dopo aver visitato accuratamente le relative home pages. Gli alberghi in Andalusia, come molte altre cose, costano decisamente meno che in Italia; proprio per questo abbiamo scelto una serie di alloggi particolari, di genere completamente diverso l’uno dall’altro, passando dal modesto ostello al lussuoso Parador. Iniziamo finalmente la visita della città, terribilmente calda in Agosto, ma non per questo meno piacevole. Attenzione: a Siviglia, come in altre città spagnole, nella giornata di lunedì tutti i musei sono praticamente chiusi per turno; così ci accontentiamo di visitare gli esterni. Affascinante il quartiere di Santa Cruz, dove si trova il nostro albergo, con le sue bellissime viuzze, piazzettine colorate e tantissimi caratteristici ristoranti all’aperto. Visitiamo inoltre la prima di una lunga serie di Plaza de Toros (arena per corride) e ceniamo a base di “Tapas” di pesce (tapas = piccole porzioni o assaggi di cibo vari.
2° giorno: SIVIGLIA
Finalmente è martedì! I musei quest’oggi apriranno! Per prima cosa visitiamo la bellissima Plaza de España. Anche con alcuni lavori in corso risulta essere particolarmente suggestiva. Ci affascinano particolarmente i numerosi azulejos (mosaici costituiti da piastrelle decorate) dedicati alle principali città spagnole. Da lì passiamo all’attiguo Parco Maria Luisa, dove ci concediamo una passeggiata tra laghetti e fontane. Ritorno in taxi verso la città vecchia e finalmente visitiamo i “Real Alcazares”, visita che resterà impressa nella nostra memoria per la bellezza e la sontuosità dei luoghi. Rimaniamo incantati dagli arabeschi che decorano i muri interi e dalle bellissime fontane. Evitiamo di visitare gli interni della famosa Cattedrale di Siviglia a causa della lunga coda e soprattutto del prezzo del biglietto da noi ritenuto “ingiusto” per la visita di un luogo religioso al quale non siamo particolarmente interessati. Preferiamo alla cattedrale la bellissima Casa de Pilatos che si trova in posizione leggermente decentrata ma che merita sicuramente una visita. Anch’essa decorata in stile moresco si presenta ricca di decorazioni e piacevole alla vista. Dopo di che ci dedichiamo allo shopping acquistando i primi souvenirs: l’offerta è varia in Spagna, basta saper scegliere (ceramiche, ventagli, gioielli, tori in peluche, casette in miniatura ecc. ecc.). Cena in uno dei tantissimi ristoranti di Santa Cruz che offrono menù a prezzo fisso, piuttosto contenuto (circa euro 25 per una cena per due). Piatti tipici consigliati: la classica Paella (di pesce e di carne) ed il Gazpacho (passato freddo di verdure).
3° giorno: JEREZ DE LA FRONTERA e CADICE
Lasciamo Siviglia, direzione Cadice facendo tappa a Jerez de la Frontera. Città piuttosto deludente che non merita, secondo noi, una sosta se non tecnica. ..Visitiamo l’isola pedonale con parecchi negozi moderni; vi è anche una piccola Alcazar ma decidiamo di evitarla in quanto la riteniamo decisamente inferiore a quella di Siviglia. L’attrazione principale della città pare essere la fabbrica o distilleria del famoso Sherry Tio Pepe, ma, non essendo particolarmente interessati alla cosa, ci rimettiamo in auto, direzione Cadice dove passeremo la notte. Anche Cadice non ci entusiasma più di tanto: città di mare, o meglio di porto, viuzze con negozietti ma alcun edificio interessante da visitare. Anche il mare non è particolarmente invitante, ma essendo notevolmente accaldati, ci concediamo un bagno nell’unica ed affollata spiaggia pubblica della città. Aperitivo a base di buon Sangria, che diventerà per noi una piacevole abitudine, nella graziosa piazzetta del nostro hotel ed abbondante cena in un ristorantino all’aperto. Poi nanna.
3° giorno: RONDA
Lasciamo senza rammarico Cadice e ci dirigiamo verso la nostra prossima tappa: Ronda. Prima però una tappa consigliata dalla nostra efficientissima guida Mondadori: Arcos de la Frontera, un tipico pueblo blanco (villaggio bianco) arroccato ad una certa altitudine. Il villaggio è piccolo ma carino; facciamo alcune foto che risulteranno in seguito particolarmente luminose. Colgo l’occasione inoltre per acquistare un nuovo trolley per sostituire il mio distrutto dai zelanti scaricabagagli dell’aeroporto. Riprendiamo il cammino, attraversando luoghi incantevoli nel bel mezzo della sierra: paesaggi semi-deserti, tanto verde ma, all’improvviso, compaiono davanti ai nostri occhi dei laghi di un particolare azzurro intenso. Arriviamo a Ronda e rimaniamo colpiti dalla bellezza del luogo. Un suggestivo ed altissimo ponte antico divide la città vecchia dalla nuova, entrambe graziosissime. La città vecchia è tranquillissima, bianchissima e romanticissima; invita al passeggio ispezionando ogni singola viuzza.
Visitiamo Palazzo Mondragon, apprezzando in particolare i cortili interni, i piccoli giardini e le immancabili fonti d’acqua. Nella città vecchia vi sono altri palazzi visitabili, ma per ragioni di tempo e di costi dobbiamo operare delle scelte e così passiamo a visitare la città nuova con le vie pedonali ricche di negozi e ristoranti. Scegliamo il ristorante per la sera, con tavolini all’aperto lungo la via ma prima facciamo tappa al bar del locale Parador per concederci un piccolo lusso. I Paradores sono una catena alberghiera tipicamente spagnola, caratterizzata da hotel di lusso collocati in suggestivi edifici storici (alberghi, conventi, palazzi d’epoca ecc.). Ma il nostro alloggio di Ronda non è da meno: un allegro agriturismo in posizione comoda ed incantevole, con piccola piscina contornata da fiori, letto con zanzariera, mobili in arte povera, colazione con prodotti naturali in giardino.
4° giorno: MARBELLA – MALAGA
Prima tappa della giornata è Marbella. Abbiamo deciso di sostare in un luogo così turistico e povero culturalmente, solo perchè, documentandoci, abbiamo appreso che Marbella possiede un’interessante città vecchia. In effetti la città vecchia ci stupisce per allegria e colori: case dipinte, piante fiorite ai muri e negozi lussuosi allestiti tuttavia con un certo gusto ed un occhio alla tradizione locale. Tralasciamo completamente la parte mondana della città e ci rimettiamo in marcia. Il nostro viaggio, pianificato mesi prima a tavolino dopo aver studiato accuratamente non meno di 4 guide turistiche ed innumerevoli siti internet, è stato caratterizzato dall’alternarsi di giornate con tappe bellissime a giornate meno interessanti. Oggi è il turno della tappa poco interessante. Inaspettatamente Malaga si rivela una città decisamente moderna. Unica cosa degna di visita è l’Alcazaba: resti di un antico palazzo caratterizzato da antiche mura, colonne e qualche vasca. Il centro città è però deprimente: decisamente moderno ed affollato da un turismo di massa alla ricerca del solo divertimento tipico della Costa del Sol. Ci ritiriamo così nel nostro lussuoso Parador, dove ci consoliamo con un piacevole bagno in piscina, con i lussi della bella camera e con la pantagruelica colazione del mattino successivo che difficilmente scorderemo.
5° giorno: GRANADA
Oggi dovrebbe essere il turno della tappa “bella”, e così è: Granada. L’attrazione principale di Granada è la famosa Alhambra: un insieme d’edifici d’epoche e stili diversi che domina la collina sopra la città. Seguendo i suggerimenti di qualche guida turistica, prenotiamo mesi prima i biglietti d’ingresso via internet, così all’entrata non abbiamo difficoltà né perdite di tempo. Visitiamo gli edifici l’uno dopo l’altro ma la nostra attenzione è attirata dal palazzo con gli arabeschi in rilievo sui muri, con bellissime fontane e grandi vasche d’acqua e dai giardini del Generalife. Caratteristica del Generalife è il rumore continuo d’acqua in sottofondo: scrosci d’acqua ovunque provenienti dalle bellissime fontane che caratterizzano il giardino ricco di fiori e piante. Anche la città di Granada non è male: belle vedute e tanti caratteristici negozietti che invitano allo shopping. Il nostro hotel, questa notte, si trova in un caratteristico palazzo d’epoca collocato in un vicoletto, con ballatoi in legno e grazioso patio (cortile interno con archi).
6° giorno: BAEZA, UBEDA, JAEN
Viaggiamo piacevolmente per circa 100 km, completamente circondati da ordinate file di Ulivi. Ulivi ed ulivi a perdita d’occhio, intervallati da qualche graziosa bianca fattoria. Inizialmente visitiamo le due cittadine di Baeza ed Ubeda, vicine l’una all’altra ma che si rivelano abbastanza deludenti e poco interessanti dopo i fasti di Granada, nonostante siano definiti dalla guida come “perle del Rinascimento”. Boh! Ci avviamo verso Jaen, dove tralasciamo completamente di visitare il centro città per dirigerci verso il nostro bellissimo Parador collocato presso il castello di Santa Catilina. Il castello, in verità, è costituito da soli ruderi, ma il Parador attiguo, costruito con le medesime pietre del castello, si rivela essere un posto sorprendente. Un vero castello ricostruito con ampi saloni con camini e mobili in stileBagno rinfrescante nella grande piscina e lussuosa cena nel ristorante del Parador.
7° giorno: CORDOBA
Cordoba è la città più colorata dell’Andalusia. Completamente in stile arabo, è caratterizzata dai numerosi patios ricchi di fiori, di vasi di terracotta appesi ai muri. Ogni negozietto di souvenirs ed ogni ristorante ha il proprio patio decorato nel fantasioso stile locale. Li visitiamo quasi tutti: si sprecano le foto e le riprese con la videocamera. Il patio costituiva anticamente il luogo fresco della casa; un cortiletto interno dove rinfrescarsi al riparo dalle torride temperature esterne. Visitiamo la famosa Mezquita e rimaniamo impressionati dalla ricchezza dei decori. La Mezquita è una moschea, in parte distrutta per lasciar posto ad una cattedrale cristiana. Nello stesso edificio si mescolano così le due differenti culture, concedendo allo spettatore un’alternanza di stili a dir poco spettacolare. Nel pomeriggio, trascino il mio restio fidanzato ai Bagni arabi. Esperienza indimenticabile, almeno per la sottoscritta: i bagni arabi sono caratterizzati da una serie di vasche di temperature diverse. Si passa così dal freddo della prima vasca, al tepore della seconda, fino al caldo bollente della terza vasca. Ma è l’atmosfera la cosa che più colpisce: locale tutto ad archi, luce di candele, profumi d’incenso ed un silenzio che si fatica a mantenere, presi come siamo dall’entusiasmo dell’esperienza. Ma ahimè è il nostro ultimo giorno e la malinconia inizia a far breccia negli animi. Passiamo così la nostra ultima notte andalusa in un originale Hostal in stile arabo.
8° giorno: MILANO
Prima di dirigerci all’aeroporto di Siviglia, abbiamo ancora un po’ di tempo. Visitiamo così, al mattino presto presto, l’Alcazar di Cordoba. L’Alcazar non è particolarmente interessante, ma i giardini sono graziosi, ben curati e ricchi di fontane. Apprezziamo così la nostra ultima visita culturale e ci dirigiamo in aeroporto per il rientro che fortunatamente si svolge senza contrattempi. Siamo a casa e non ci resta che consolarci con le numerosissime foto scattate, ma siamo comunque felici di aver trascorso una splendida vacanza completamente fai – da – te.
La scoperta dei luoghi e la magia ci ha accompagnato per tutto il viaggio ....!!!!!
FINE....
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L'Australia dentro di noi
Un serpente di metallo di venti vagoni, una coppia di rotaie che corre per migliaia di chilometri e un contrasto di antichi ed estenuanti percorsi carovanieri e moderno lusso: tutto questo è il Ghan, il celebre treno che attraversa il continente australiano da Sud a Nord, un viaggio nell’Australia più vera, ma anche nelle profondità più remote dell’animo che solo il deserto sa risvegliare. Il viaggio più sognato dagli ozzies inizia ad Adelaide, nel South Australia con questo lungo convoglio che parte due volte a settimana per una traversata di oltre 50 ore. Come nelle descrizioni degli antichi pellegrinaggi, la stazione raccoglie frammenti di umanità uniti dal viaggio: studenti armati di zaini e sacco a pelo per affrontare la fredda notte del deserto e anziane coppie felici di celebrare le nozze d’oro avvolti nel lusso delle carrozze Platinum Service. Nell’ultimo vagone, dove si trovano i Red Seats, ossia i semplici ed economici sedili, comunque paragonabili ai posti della business class degli aerei, si respira aria di avventura, mentre il fascino aumenta risalendo i venti vagoni che compongono il treno, con gli interni che diventano sempre più raffinati e le cabine che lasciano volare la fantasia verso l’idea che si può avere dell’Orient Express ai tempi del suo massimo splendore. Bastano pochi minuti e le case di Adelaide vengono subito lasciate alle spalle e l’orizzonte si allarga, ma è passata Port Augusta, a circa duecento chilometri di distanza, che si inizia a respirare l’aria del deserto. Il terreno inaridisce e si fa strada il sentimento di suggestiva solitudine, mentre il tramonto tinge di rosso la già rossa terra. I viaggiatori non mancano, ma capita di trovarsi soli col rumore delle rotaie che scorrono e il treno che taglia in due il mondo: da un finestrino la luce del sole sfuma in mille colori, mentre dall’altra parte la luna porta la notte nel deserto sconfinato. Il vagone ristorante fa intrecciare diverse storie: ci sono ROBERTA e IVAN , italiani della valle d’Aosta in viaggio di nozze, ROBERT e LORELAY di Adelaide in viaggio per incontrare la figlia che lavora, isolatissima, a Uluru, il famoso monolite simbolo dell’Australia. A Bryan Casey, anziano signore di Sydney, chiedo cosa significhi per lui l’Australia e la risposta è a botta sicura: libertà! Non si può dargli torto, perché questo viaggio in treno contiene i due principali sentimenti che l’Australia risveglia: da un lato l’infinito senso di libertà che una terra sottopopolata e in parte ancora inesplorata può dare, dall’altro la costante sensazione di impotenza dovuta al fatto di sentirsi ospiti della terra e della natura che in Australia predomina, riducendo la presenza umana a piccoli insediamenti sparsi in questo infinito continente. E non è un caso se questo paese è chiamato da chi lo abita Oz: non mancano i tratti della fiaba e del mondo incantato, quel mondo che il capotreno Jamie Martin vede ad ogni viaggio quando si affaccia fuori dal finestrino o ammira l’alba farsi strada nel buio della notte del deserto.
È un lavoro che il giovane neozelandese svolge con grande passione, nonostante possa sembrare alienante e comporti anche alcuni rischi: come nei film, capita che qualcuno sfidi in macchina il treno, cercando di superarlo lungo la strada sterrata che corre a fianco alle rotaie per arrivare primo al passaggio a livello e a volte non sempre questa sfida riesce. Altre volte è la natura a essere ostile, come quando l’arido deserto viene lavato da piogge torrenziali che allagano delle aree enormi e che già in passato hanno costretto il Ghan a invertire il senso di marcia. Ma tutto questo fa parte dell’avventura, quella stessa avventura che conduce ad Ayers Rock e ai luoghi sacri agli aborigeni, e prosegue attraversando il deserto lungo la stessa strada che l’intrepido esploratore Stuart aprì a metà 1800, arrivando a Darwin per iniziare un nuovo viaggio nelle meraviglie della Grande Barriera Corallina.
FINE....
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CON LÀGRIMAS EN LOS OJOS
Una sottile nebbia sale rapida e assorbe il panorama rendendolo fatuo. Sul coche de lìnea da Puno in Perù, quasi un’intera giornata fino a Desaguadero, confine boliviano. Tra i passeggeri gira “mate de coca”, infuso caldo di foglie di coca per non cadere nel “soroche”, mal d’altitudine. Giacconi indossati uno sull’altro. Calze, jeans e CD nascosti dentro le fodere dei sedili. E’ il “choce de contrabando”. Sicuro e veloce. Paradigma di vita. Un gruppo di giovani “pacenos”, abitanti di La Paz intonano “con làgrimas en los ojos”, malinconiche note d’amore e d’ombra. Una lentezza magica entra nelle vene mentre l’ultima polvere di luce si spande sull’aia del mondo a quattromila metri di altitudine. Poi la pianura gialla s’interrompe sul bordo d’un precipizio. La luce del sole è all’orizzonte e già sorge la luna. Alzi lo sguardo e l’Illimani coi suoi 6460 metri di altitudine carico di neve e di ghiaccio ti cattura in un lungo brivido. Prima rosa e poi azzurro nella luce del tramonto. Un indio ti scuote con un sibilo tra i denti “ mira hacia, abajo”. Sbirci in basso e vedi rotolare case, palazzi, chiese e grattacieli. L’una sull’altro con migliaia di luci accese che scivolano per quattromila-tremila metri strappandoti il cuore. E’ La Paz, la capitale più alta del mondo. Una conca di case, persone e brulicante vita. Più di ottocento metri di dislivello sotto due picchi innevati, l'Illimani e l'Huayana Potosì. La Paz, due città dentro un canyon. Quella ricca adagiata sul fondo, dove fa più caldo. Quella povera, El Alto, arranca fino ai bordi del cratere. Incanto dell’ora. Il sole indugia dietro la Cordigliera e la luce crepuscolare regala una magica atmosfera. Una finestra sull’alba che respira la città e ascolta i primi suoni. Mujeras y niños sono già in strada, coi buffi cappellini, strette dagli scialli grigi sulle gonne nere, larghe, strato su strato. Unte e logore. Le fusciacche sorreggono i piccoli. Sono Ayamara come il Presidente indio Evo Morales. In fila, le lunghe trecce, cappello a bombetta. Protestano per mancanza d’acqua in una città che continua a crescere. E le fontanelle restano a secco per diversi giorni la settimana. Poi, con lo stesso passo si disperdono nelle calli coloniali, i bimbi aggrappati con le guanciotte arse dal sole della vita.
Le ritrovi al mercato de las brujas, delle streghe (Hechicheria) dove vendono pozioni e filtri. Tutto ciò che serve alla salute. Soldi, casa e un marito. Si un marito, se laborioso e astemio, aiuta. In molti sono scomparsi nelle miniere di stagno, nelle caserme, negli stadi. Morti ammazzati o di stenti nel precedente “gobierno asesino y fascista”, perché prima di “el Evo” indio ayamara come noi, era “mejor la muerte de una vida de miseria, de hambre”. Parlano le donne con la bombetta che s’impiglia tra penzolanti feti di lama sulle bancarelle. Pozioni, filtri magici e amuleti che inondano i mille mercati della città, nelle piazze, lungo le vie dei bassifondi che a La Paz sono in alto verso la luce. La merce appoggiata in terra. Maglioni, cinture, terracotta, occhiali, scarpe. Frutta e verdura, carne e spezie. Calle Linares, calle Sagarnaga poi giù a Plaza Pedro Murillo fino in centro a Plaza San Francisco con l’omonima chiesa dalla facciata di pietra scolpita con disegni indio. Dentro, il barocco sfrenato dei fregi, statue, icone, raso e velluto. Oro delle balaustre, luci sempre accese. Un organo e tanto incenso. Fuori, di nuovo nel caos circondati da palazzi e grattacieli che puntano verso El Alto e riempiono ogni centimetro quadrato delle colline a quattromila metri di altitudine. In cerca d’aria. Un saliscendi di vie e vicoli. Non puoi andare giù se non sai come tornare su. Allora fermi un “colectivo” che strombazza ad ogni incrocio. Sfiori suoni e profumi. Vivi immagini che scivolano via veloci ma si fissano nella mente come gli occhi di quel bambino col moccio al naso. Quel vecchio disteso a terra tra un cumulo di “basura”, dentro un cartone. Vuoi scendere. Lo fai. Cammini in salita a tremila metri respirando aria inquinata e troppo pura vicino alle nuvole. Paradosso di La Paz. Nascondi le Nikon, non per paura. Per rispetto della dignità di uno sguardo profondo, di un sorriso senza denti. Della miseria ancora da debellare nei sobborghi della città, di Calacoto e Florida. Di un dolore lungo quanto la fila di quelle madri e mogli che sostavano di fronte alle caserme con l’orrore, ancora, vivido sul volto. Ti stringono sentimenti che poi penetrano dentro senza abbandonarti mai.
Piangere o sorridere. Parlare o tacere. Solo quelle immagini che pensavi di non vedere più. Neanche la “Puerta del Sol” e i misteri di Tiahuanaco o la Valle della Luna coi pinnacoli franosi, capricci di una natura magica e le cime dell’Illimani, ti fanno distogliere da quel groviglio di sensazioni che stringono il cuore fino a farti soffocare.
FINE....
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Diari di viaggio America Centrale
TRINIDAD DE CUBA
La vecchia Dodge56 sbuffa fumo nero e arranca brontolando nella Sierra del Escambray. La strada asfaltata attraversa campi coltivati e piantagioni di canna da zucchero. Leggero fragore di battaglia d’una cascata che disseta con la sua limpida frescura. Dopo un susseguirsi di curve sbuca dall’alto sulla piana di Trinidad, con le bianche spiagge caraibiche della penìnsula de Ancòn a far da quinta. Giù, il blu-argento e l’oro increspato del mare. Orizzonte di rame mosso dal vento. Trinidad sboccia come un fiore. Un labirinto di tegole d’argilla rossa a coronare lo stretto reticolo di vie. Le strade selciate con pietre di fiume scendono verso la costa. Mirabile soluzione che unisce mare, fiume e città. Spazi di luce nelle piazzette fiorite e nei patios. Ringhiere, cancelli, affreschi, sedie e portoni. Incomparabile dipinto naïf. Bella, schiva, segreta. Quasi appartata dai clamori rivoluzionari e quasi incurante dei cambiamenti. C’è un’atmosfera paesana, rilassante, crepuscolare. Giocatori di scacchi e domino seduti intorno al tavolo con qualche sfaccendato intendo ad animarli. Personaggi scappati da qualche romanzo, addolciti da un ventaglio di rughe allegre e inebriati da un sigaro da un peso, lungo 14 centimetri. Il ticchettio di un cavallo sulle pietre come piccoli rintocchi di campane. Discreti sguardi degli artigiani. Mani forti e svelte danno vita a legno e ferro, sulla via riparati da chiazze d’ombra concesse dal sole. Un’anziana donna torna dal mercato con l’ombrello aperto per ripararsi dai raggi inclementi. Porte e finestre sempre schiuse. E quell’antica abitudine di sedersi sull’uscio e sul marciapiedi dove si mettono sedie e poltrone per conversare, cantar di leggende di schiavi, di bandoleros romantici, di corsari e di tesori nascosti tra le mura delle vecchie case. “Alegrìa de Vivir” di un’orchestrina in calle Amargura, tra San Josè e Boca, interpreti della canzone trovadorica. Fusione di due culture, europea e africana. Claves, tres, timbales, congas, bongo, chitarre e basso. Strumenti a corda retaggio dei coloni spagnoli e percussioni portate dagli schiavi africani. Si muovono lenti gli abitanti di Trinidad. Sulla spiaggia tra il viavai di cangrejos e il volteggiar di gabbiani.
Lungo Calle Rosario che sale verso Plaza Mayor, una sosta alla taverna per una birra chiara Mayabe o una caña, bicchiere di rum bianco. Un’altra per il Tabaco, il sigaro o le Popular, superfinos negros. In mano il Tamal, mais e riso avvolto in foglie bollite. Guano in spalla, inseparabile sacca sempre pronta ad accoglier di tutto. Magica città che rapisce e non lascia il tempo di ammirare un angolo, la facciata di una casa, la sagoma di un portone, che già se ne scoprono altri. Un cesto di manghi, un casco di minuscole banane e piccoli frutti verdi ben disposti sul vassoio nella veranda del professor Amalìa, amabile uomo d’arte e di penna. Fresca casa che odora di manoscritti e fiori. La bianca tenda mossa dalla brezza caraibica scopre il patio. Verde, antico gioiello che genera luce, aria, colore e suono. Tra un fiorir di palme e vasi appesi alle colonne, Sinsontes e Negritos si sfidano in acuti cinguettii. Lirici canti, una sorta di gara per deliziare il cuore. Rassicuranti come questa casa dove tra scrittoi e sofà annaspa un ragno sotto lo sguardo amletico d’un micio. Sigaro, mojito e storia. Amelìa racconta che fino al 1920 Trinidad era collegata al resto dell’isola da poche piste per muli e per cavalli, e dalle navi che attraccavano al porto di Ciénfuegos. Isolamento che ha protetto la straordinaria architettura coloniale della città, dichiarata nel 1988 dall’UNESCO “Patrimonio Culturale dell’Umanità”. Ha l’antica calma dei saggi. Di chi con amore e ingegno conclusivo ha contribuito a preservare il centro storico. Il Palazzo Brunet, settecentesca dimora di Nicolas de la Cruz y Brunet. Stanze arredate con preziosi mobili, dipinti, porcellane, argenti. Tutto registrato. La cattedrale Mayor Santìssima, la Ermita de Santa Ana, il Convento di San Francisco de Asís e la Ermita de la Candelaria de la Popa del Barco. I Patios adorni di fiori e piante tropicali, le abitazioni patrizie con verande andaluse. E’ tempo d’andare dopo una cena baciata da un rosa tramonto e conclusa col raro Anjeco (vecchio di 7 anni). Añita, quieta compagna dalla galeonesca figura rassetta e con strascicar di piedi lucida il pavimento mentre raccoglie il Granma scivolato a terra. Il professor Amalìa s’è assopito con accenni di mare e di sierra sfumati in gola.
Basta seguire il suono dei timbales verso la Casa de la Trova, salire i gradoni vicino alla parrocchiale e già la notte s’accende di canti. Si fa musica all’aperto, tutti seduti sulla scalinata, mezzo cocco pieno di Canchanchara (rum, miele, succo di lime) e il ritmo che entra nelle vene. Le ragazze ballano scalze in un vortice di gonne bianche. Laggiù nella sua casa, certo Amalìa ascolta sornione. Ricorda l’ebbrezza dei sensi e forse riaccende il sigaro.
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